Qualche giorno fa abbiamo festaggiato i 136 anni fa di Virginia Woolf, una delle menti più geniali della letteratura di tutti i tempi: la sua influenza, non solo sul mondo delle donne, ma in generale sul pensiero e la produzione letteraria globale, è enorme. Oggi vi parlo di un libro letto qualche settimana fa: ecco a voi la recensione di “Una stanza tutta per sé”, uno dei manifesti del femminismo sessantottino (che io ho letto nella versione Newton Compton, tradotta da Maura Del Serra). Decisamente, avrei dovuto leggere questo saggio sulle donne e il romanzo a 16 anni, quando ho iniziato ad avvicinarmi al femminismo e a scrivere seriamente le mie storie: mi avrebbe consolato e fatto sperare, mi avrebbe commosso, fatto sentire capita, parte di qualcosa, vicina a tutte le donne del passato, del presente e del futuro. In realtà, mi ha fatto sentire così anche ora che ho 38 anni e le mie idee sono belle e formate nella mia testa: perché, come diceva Italo Calvino, “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire“.

Titolo: Una stanza tutta per sé
Autore: Virginia Woolf
Genere: Saggio
Pagine: 128
Prezzo: 4.90 €
Link acquisto: cartaceo

THE QUEEN PUPPET É COMPLETAMENTE E IRRIMEDIABILMENTE INNAMORATA DI QUESTO LIBRO!!

Alla fine di questa lettura, mi sono fatta una domanda: abbiamo una stanza tutta per noi? Ciò che sperava Virginia Woolf in questo breve saggio si è avverato? Abbiamo conquistato i diritti che dovevamo conquistare? Siamo sostanzialmente in un mondo egualitario in cui la differenza maschio-femmina è anacronistica? Il femminismo è, ormai, inutile? Mi piacerebbe discuterne con le donne (che sono parte in causa) e con gli uomini. Secondo la mia opinione, no. Il femminismo non è ormai inutile. Del femminismo abbiamo ancora disperatamente bisogno. Ma non voglio parlarvi di questo, ora, anche perché è un argomento che ho affrontato qualche tempo fa su Medium (se volete leggerlo cliccate pure sul link e lasciatemi naturalmente un commento): Perché il femminismo è ancora necessario (purtroppo).

Una stanza tutta per sé è un saggio breve risultato dell’unione di due conferenze che Virginia Woolf tenne nei college femminili di Newnham e Girton, Cambridge, nel 1928. Da sottolineare l’anno: siamo a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, molti dei diritti delle donne non sono ancora conquistati e, benché Virginia parli a un pubblico di studentesse donne, siamo ancora in un periodo che guarda con sospetto e fastidio all’alta istruzione femminile. Le donne, nel momento in cui Virginia Woolf scrive, sono vittime di una società fortemente maschilista e patriarcale come quella inglese, la donna è esclusa dalla cultura, sono stati sempre gli uomini a parlare per lei. Questo è forse il nucleo del discorso di Virginia Woolf: è tempo per le donne di rivendicare lo spazio, in letteratura e in generale nella cultura, che alle donne spetta. Come fare?

Avete idea di quanti libri si scrivono sulle donne in un anno? Avete idea di quanti sono scritti da uomini? Sapete di essere l’animale forse più discusso dell’universo?

L’assunto principale da cui Virginia parte è che una donna, se vuole scrivere, deve avere denaro e una stanza tutta per sé. Cosa significano queste due cose? Che una donna ha bisogno per scrivere, non solo del talento (quello è scontato), ma di autonomia. L’autonomia, infatti, è il motore di tutto: senza soldi per comprare carta e spazio in cui scrivere, mi dispiace, ma non si può far nulla. Se la libertà femminile di scrivere è la concessione di un maschio (padre, fratello, marito che sia) e se tale libertà toglie tempo ad altre attività più utili all’interno del nucleo familiare (tenere la casa pulita, prendersi cura di marito e figli, cucinare, rassettare, ecc.) allora perché un uomo dovrebbe concederla? Ecco perché una donna ha la vitale necessità che la libertà sia sua, senza doverla chiedere ad alcun uomo: deve avere i soldi, anche per vivere da sola eventualmente. É un pensiero di una modernità sconcertante ed è vero allora come oggi: anche se adesso le donne lavorano e sono autonome, in massima parte, dai maschi, è necessario ricordarsi sempre che il processo creativo va in contrasto con le mille incombenze quotidiane. Ecco allora, non solo il denaro, ma anche una stanza tutta per sé, uno spazio personale nel quale nessuno può entrare senza permesso: le scrittrici del passato, dice Virginia Woolf, ad es. Jane Austen, non avevano una stanza dove scrivere, scrivevano in salotto, nella confusione e col rischio di essere continuamente interrotte. Quindi, potrà sembrare superfluo come principio, ma avere una stanza tutta per sé è fondamentale per una scrittrice.

La libertà intellettuale, insomma, deriva da cose materiali come il denaro e la poesia, la creatività, il talento si basano sulla libertà intellettuale: ecco allora, donne autrici, cosa dovete fare se volete scrivere davvero. Lavorare.

Queste sono solo le premesse: nel corso del saggio, Virginia Woolf prende in giro e riduce in pezzi il linguaggio maschilista in ambito letterario e sociale, lo fa con humour intelligente e inattaccabile, lo fa ponendosi su un livello più alto di umanità. A questo proposito, ho trovato semplicemente geniale, nella sua semplicità, l’idea secondo cui dalla rabbia maschilista non deve nascere la rabbia femminista, perché parlando (o scrivendo) con rabbia di nuovo poniamo il maschio al centro del nostro discorso e della nostra vita e mostriamo al mondo quanto, in effetti, ci interessa del suo giudizio. Questo è un concetto che si può tranquillamente traslare nella vita quotidiana, che non è valido, insomma, solo in ambito letterario.

Le donne, secondo Virginia Woolf, non devono scrivere di come vorrebbero il mondo, né devono scegliere gli argomenti da affrontare in base alla lotta fra sessi, no. Le donne devono scrivere e parlare degli stessi argomenti degli uomini, di loro stesse, di sentimenti (senza paura di essere definite frivole o superficiali): devono prendere possesso e raccontare la realtà, senza il filtro della rabbia sociale che pospone la trama e l’argomento del proprio libro alla propria, personale, insoddisfazione. Scrivere significa voler dire qualcosa, perciò, dice Virginia Woolf, raccontate la realtà così come la vedete, in modo da dare un’idea alternativa del mondo, della donna e dell’uomo, a quella finora proposta dal mondo maschile.

Fra cento anni, d’altronde, pensavo giunta sulla soglia di casa, le donne non saranno più il sesso protetto. Logicamente condivideranno tutte le attività e tutti gli sforzi che una volta erano stati loro negati. La balia scaricherà il carbone. La fruttivendola guiderà la macchina. Ogni presupposto basato sui fatti osservati quando le donne erano il sesso protetto sarà scomparso; ad esempio (in strada stava passando un plotone di soldati) l’idea che le donne, i preti e i giardinieri vivano più a lungo. Togliete questa protezione, esponete le donne agli stessi sforzi e alle stesse attività, lasciatele diventare soldati, marinari, camionisti e scaricatori di porto, e vi accorgerete che le donne muoiono assai più giovani e assai più presto degli uomini; cosicché si dirà: “Oggi ho visto una donna”, come si diceva “Oggi ho visto un aereo”. Può accadere qualunque cosa quando la femminilità cesserà di essere un’occupazione protetta, pensavo, aprendo la porta.

In questo senso, ad es., Jane Austen, a differenza di Charlotte Bronte e George Eliot che della loro rabbia hanno intriso le pagine dei loro romanzi, si è dimostrata inattaccabile: a Jane Austen (così come a Emily Bronte) non interessa assolutamente nulla del maschilismo, scrive come se non esistesse, al di sopra di qualsiasi rabbia (e pure doveva averne di ragioni per cui essere arrabbiata, se pensiamo ai tempi), indifferente al giudizio dei maschi per cui parlare di matrimoni e feste era una cosa prettamente femminile (così come Emily Bronte se ne infischia e racconta una storia d’amore struggente anche se, l’amore è, tradizionalmente, argomento femminile): Jane Austen era una scrittrice al di sopra di tutto questo. E i suoi romanzi, infatti, non raccontano storie di matrimonio, ma affrontano alla luce del razionalismo settecentesco la società del tempo e le sue forme, senza paura per il giudizio dei salotti letterari dell’epoca, dominati dai soli uomini.

Un saggio breve ma intenso, pieno zeppo di cultura, umorismo e femminismo, raccontato con lo stile unico e non sempre facile di Virginia Woolf, una delle narratrici più importanti di tutti i tempi. All’inizio ho faticato a entrare nel cuore dei concetti, affascinata e stordita dalla prosa complessa e dalle numerosissime stratificazioni, ma superate le prime due o tre pagine, è un tripudio di amore per questa Donna magnifica.

Il consiglio ultimo che Virginia Woolf dà alle giovani e future scrittrici (e prendete carta e penna, signore) è che la scrittura debba essere androgina, contenere elementi maschili e femminili, senza propendere più per l’uno o l’altro genere. In altre parole, se proprio volete un riassunto di questo libro in tre righi:

Fanculo il patriarcato, ragazze: se volete scrivere romanzi, guadagnatevi dei soldi (non quelli di vostro marito o vostro padre!) e una stanza in cui nessun altro può entrare e scrivere, ogni giorno, e quello che volete, fregandovene di ciò che gli altri pensano di voi. Fatelo in nome di tutte le donne che avrebbero voluto avere le vostre stesse opportunità.

Questo libro dovrebbe essere donato a ogni donna che nasce sulla terra, fin nella culla: bisognerebbe portarselo dietro, come sostegno, speranza, ispirazione.
Leggetelo, se volete fare le scrittrici. Leggetelo anche se non volete fare le scrittrici, ma volete essere delle donne migliori.

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