buon-junkie Contavo di parlarvi per prima cosa di Illuminae, un libro che ho amato moltissimo. Poi è successo che mi sono imbattuta nel meraviglioso mondo degli audiolibri e ho ascoltato un libro straziante e bellissimo (dal titolo avete già capito quale).

Dovete sapere che io lavoro da casa, essendo un freelancer, per non impazzire ho bisogno di un costante sottofondo (a meno che non stia facendo editing o correzione bozze o qualsiasi cosa richieda una concentrazione maggiore). In ogni caso, quasi sempre il mio sottofondo preferito è la musica.

Ero impegnata in progetti che non richiedevano grande concentrazione, piuttosto meccanici, per cui mi sono detta: visto che il tempo per leggere è sempre così poco, perché non approfittare del momento in cui lavoro per “leggere” qualcosa?
Così, per prima cosa, “ho letto” (sono una purista, non so se è la stessa cosa leggere e ascoltare un libro, devo pensarci, voi che ne dite?) Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne (che vi recensirò a breve).

E poi, su YouTube, ho scovato l’audiolibro integrale di “La metamorfosi” di Kafka, letto da Valter Zanardi. Ci sono diversi audiolibri gratuiti su YouTube, basta cercarli; si tratta soprattutto di classici, ma ci sono anche autori italiani indipendenti, ecc. Qui vi metto la versione de La metamorfosi che ho ascoltato io, se avete un paio d’ore di tempo, provateci anche voi!

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ECCEZIONALE!
ECCEZIONALE!

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Di Kafka ho letto solo alcuni racconti (tra cui “Un messaggio dell’Imperatore“, di una bellezza sconvolgente). Mi hanno colpito tutti per l’intensa poesia e il dramma, ma nonostante questo, nonostante fossi rimasta affascinata al liceo da una pièce teatrale che portava sul palcoscenico “Lettera al padre“, non ho mai pensato di approfondire il discorso.

Da adolescente amavo i classici come Orgoglio e Pregiudizio, Tom Jones, Anna Karenina, Madame Bovary, storie di amori e dolori, di morte, anche, ma storie “aperte”, dopotutto. Quello che scriveva Kafka era bello, ma anche terribilmente soffocante: questo è stato il primo approccio che, da ragazzina, ho avuto con La metamorfosi. Allora ho mollato il libro.
“Un giorno sarà giusto”, mi sono detta, come succede sempre quando lascio una storia non perché provi repulsione, semplicemente perché non è ancora il suo momento. In ogni caso, per La metamorfosi il momento è finalmente arrivato.
No, non è cambiato l’approccio iniziale: soffocante è il termine più adatto a descrivere questa storia, una storia che dalla trama potrebbe sembrare grottesca, perfino ridicola (un uomo che si ritrova mutato in un disgustoso insetto), ma che fin dalle prime battute si rivela cupa, straziante, terribilmente vera.

Kafka ci porta fra le quattro soffocanti (appunto) mura di una stanza, la stanza di Gregor Samsa, risvegliatosi insetto, la forma di vita più bassa, secondo la visione comune (degli uomini). Gregor Samsa era un ragazzo, con un padre e una madre e una sorella, era un commesso viaggiatore il cui denaro ha permesso alla sua famiglia di vivere, era un uomo imprigionato in un posto lavoro soffocante, in cui l’individualità, la fantasia, i sogni del singolo non contano nulla. Gregor dice, all’inizio, sogna anzi, di lasciare quel posto di lavoro, ma quando poi si ritrova insetto e rischia davvero di perderlo, piange e si dispera. Che strani che sono gli esseri umani. Sognano la libertà e hanno paura di afferrarla.

La parabola triste e umiliante di Gregor Samsa inizia quando, dopo aver preso coscienza della sua nuova condizione (quello che la sua famiglia definirà da allora in poi “l’incidente”) deve fare i conti con “l’altro”. Estraneo a se stesso, trova una sorta di equilibrio nella rassegnazione, rassegnazione che invece non riescono a provare i suoi genitori e sua sorella. La ragazza, all’inizio, è l’unica ad avere la forza di prendersi cura del fratello: gli porta da mangiare, rassetta la sua stanza. Poi anche la pietà, l’affetto, mutano: diventano disperazione, rabbia e poi fastidio.

E man mano che l’immagine di Gregor-uomo svanisce negli altri, Gregor si trasforma sempre più in un insetto, un insetto che non ha più alcuna ragione per vivere, perché è ancora profondamente umano: vede le cose e non può più averle. Desidera, come un uomo, ma non ne ha la forma. Gregor si accorge della vita, quando ormai non ne può più usufruire. Si rende conto delle cose che ha intorno, della musica, del cibo, dei quadri, quando ormai è tagliato fuori da quel mondo. Così è la vita, sembra dire Kafka. Così è, in effetti.

Privato della sua natura, senza un lavoro, senza una famiglia, senza la possibilità di godere di quella vita che in passato aveva deprecato, Gregor non è più nulla. E dopo essere svanito per gli altri, svanisce allora anche per se stesso.
Per la sua famiglia è diventato un peso, una vergogna, un dolore. Quel dolore dev’essere sradicato, dimenticato, nascosto.
Una crudele metafora della malattia, psicologica e fisica. Forse quell’insetto, quell’essere con i sogni, le speranze, i dolori di un uomo ma l’aspetto (per se stesso e per gli altri) di un mostro schifoso, è la depressione, è la malattia, è la trasformazione che avviene dentro e fuori quando non si è più in sé.

Ci si trasforma, di colpo non ci si riconosce, ci si guarda allo specchio trovandosi ripugnanti. Si impara poi a camminare su esili zampette, si prova a convivere con la nuova condizione… ma lo sguardo disgustato degli altri ci riporta nel buio, pieni di vergogna. Bisogna nascondere il dolore, la malattia: le regole del buon senso comune lo impongono. Si soffre in silenzio, senza dar fastidio, perché nessuno può aiutarci: siamo soli.

Kafka svela anche un altro orribile particolare: il dolore a lungo andare diventa solo fastidio. La depressione (o qualsiasi altra patologia) diventano un peso per chi sta intorno, man mano che nel malato cresce il bisogno degli altri, negli altri aumenta il bisogno di allontanarsi, tornare a respirare, vivere.

La malattia è un peso che grava sul malato e su chi lo circonda, ma mentre per il malato la malattia è una sfida ineluttabile, che dopo un po’ dev’essere accettata, mentre il malato è, suo malgrado, costretto ad affrontarla, per chi il dolore lo prova di riflesso, non c’è altra strada se non chiudere gli occhi, scappare: in altre parole, l’essere umano cercherà sempre di salvarsi, a discapito perfino dei rapporti più sacri.

Così fa, alla fine, la famiglia di Gregor. E Gregor si lascia morire, perché l’unica cosa che lo teneva in vita era quella sottile connessione col mondo che avveniva tramite i suoi cari.
Una volta morto, Gregor si trasforma del tutto in insetto, la sua coscienza umana si spegne nella solitudine e nell’umiliazione, non verrà ricordato, non avrà una tomba: la governante pagata per sistemare la sua stanza lo getta via, come se non fosse mai esistito.

La capacità di Kafka di parlare di un argomento fantastico e reale insieme è sorprendente, lo stile poetico e crudo allo stesso tempo. Non troverete né salvezza né redenzione: c’è l’uomo e i suoi dolori e la vita, che ci trasforma e mette alla prova e contro la quale, in fondo, siamo soli, soli con il nostro piccolo, scuro mondo (quest’atomo opaco del Male, diceva Pascoli riferendosi alla Terra) un mondo che, alla fine, andrà comunque in pezzi.

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