Nabokov odiava le interviste e questo volume ne raccoglie 22, più 11 lettere a direttori di altrettante riviste, 9 articoli su tematiche varie e perfino 4 scritti sulla passione più grande di Nabokov dopo la scrittura e i libri: le farfalle.

Nabokov odiava le interviste, ma le interviste, a volte, gli toccavano lo stesso, perché era uno dei più grandi scrittori viventi e il mondo aveva sempre domande per lui.

Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino.

Solo che Nabokov non sapeva parlare a braccio, per sua ammissione. Era molto più bravo con la parola scritta: la sua mente intransigente, soprattutto verso se stesso, non gli consentiva di prendere nulla con leggerezza, soprattutto un’intervista in cui era chiamato a esprimere con precisione e chiarezza il suo pensiero. Era terrorizzato all’idea di non essere compreso, al pensiero della banalizzazione delle sue opere e della psicanalisi adattata al suo pensiero. Nabokov, a dirla tutta, odiava la psicanalisi, riteneva Freud poco meno che un cialtrone. Ecco perché le sue interviste si tenevano tutte in forma scritta, erano pensate, corrette, dovevano essere pubblicate nella loro forma integrale, senza tagli e senza aggiunte.

Un pensiero, quando è scritto, è meno opprimente, benché si comporti talvolta come un tumore maligno: lo asporti, lo strappi via, e si sviluppa di nuovo peggio di prima.

Più che interviste, si tratta di piccoli saggi, ai quali manca totalmente la spontaneità, ma che ci aiutano a capire con precisione il carattere meticoloso, geniale e sottilmente ironico di Nabokov.

Perché Intransigenze?

Perché Nabobov lo era, intransigente: con i lettori ottusi, gli scrittori mediocri, i giornalisti faciloni, i traduttori incapaci, i critici ipocriti, con Dostoevskij e con Freud, con un sacco di cose, compresa la musica leggera, ma soprattutto con i regimi, la crudeltà, le ingiustizie, la stupidità. E poi, come detto, con se stesso: correggeva gli altri, ma anche se stesso.

Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono inutili.

Molte delle interviste sono lo spunto per parlare della sua opera più nota, Lolita, e l’occasione per difendersi dalle interpretazioni psicanalitiche di critici da due soldi e spiegare che no, non era attratto dalle ninfette, Lolita è letteratura non la sua biografia. In effetti, uno degli errori più odiosi quando si legge un libro è psicanalizzare il suo autore, come se i pensieri e le azioni dei suoi personaggi riflettessero per forza l’interiorità del loro inventore. La letteratura, quella seria, è ben al di là di queste facili interpretazioni.

Non sono colpevole di imitare «la vita reale» più di quanto «la vita reale» sia responsabile di plagio nei miei confronti.

Nabokov parla della Russia, per sfuggire al luogo comune dell’autore perseguitato dal perpetuo rimpianto della patria: lo scrittore amava l’America e considerava la Russia un luogo troppo angusto per la sua arte. Della Russia, di cui conserva un ricordo romantico dei primi anni di vita, parla, ma lo fa senza rimpiangere nulla, convinto che il regime, e la conseguente scarsa libertà intellettuale, cui erano sottoposti gli scrittori connazionali fosse un motivo sufficiente per preferire l’America e anche la condizione necessaria alla nascita di gran parte della sua opera, soprattutto quella scritta in lingua inglese.

Intransigenze è una sorta di autobiografia letteraria, che consente di aprire una breccia nelle ciclopiche mura che circondano l’intimità di Nabokov scrittore e uomo, ma solo quel tanto che l’autore desidera mostrarci. E anche se i suoi giudizi perentori e la totale mancanza di modestia (ma perché fingersi modesti se si è consapevoli di essere dei geni?) potrebbero farlo sembrare uno snob o un presuntuoso, la scrittura geniale, intrisa di rigore ma anche di poesia e ironia, armonia di suono e significato, gli dà ragione o, quantomeno, non consente obiezioni.

Nabokov era un genio, lui lo sapeva e non aveva paura di dirlo. E per fortuna: ci ha regalato tanto da cui poter imparare.

Certe persone – e io sono di quelle – odiano il lieto fine. Ci sentiamo truffati. Il fallimento è la norma.

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