“Tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia.”
Herman Melville

Se cercate un romanzo sul mare, non leggete Moby Dick.
Moby Dick è il Mare: un oceano sconfinato di nozioni, tipi umani, follie, desideri, incubi, passioni, volti e luoghi imprecisati, mostri marini che appaiono quasi solo nei racconti del suo allucinato protagonista, Achab, alla ricerca della Balena Bianca, il Leviatano, la sua nemesi.

Moby Dick non è solo la storia dell’equipaggio strambo ed eterogeneo (Queequeg, Starbuck, Stubb, Ismaele, e gli altri) a bordo del Pequod, diretto verso l’impossibile e la morte, è la storia dell’Umanità, ma soprattutto la storia di un destino (comune a tutti gli uomini) di morte e del continuo, inutile, lottare e struggersi. La storia di una vendetta che non potrà mai essere soddisfatta, ma che viene portata addosso come una maledizione.

È la battaglia contro i mulini a vento di Cervantes ma senza ironia o tristezza, è una guerra feroce e cruenta (non solo contro la Balena, ma contro la Natura, il Tempo e contro se stessi) nella quale si finisce per riconoscersi, alla quale ci si ritrova a partecipare, pur sapendo già come andrà a finire, proprio per questo.

Uno dei miei primissimi blog si chiamava Getting To Nantucket (che è l’isola da cui salpa il Pequod) come omaggio al romanzo in cui l’Angelica ventenne di allora, annoiata e inquieta, spaventata e un po’ esule, trovò uno dei suoi luoghi letterari del cuore.

Per me, Moby Dick resterà sempre questo: la bibbia del ramingo, la storia nella quale si riconosceranno tutte le anime vagabonde del mondo. 

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