In quarta elementare, la maestra ci diede il compito di scrivere una storia. A quel tempo ero giovane e pura ed ero certa che un giorno scrivere libri sarebbe stato il mio lavoro. Ero anche convinta che il mestiere di scrittore fosse il più bello del mondo (questo lo penso ancora oggi).

Trascorsi un pomeriggio intero a inventare e ricopiare in bella un racconto di sette pagine che raccontava di una principessa che si addormentava e finiva sulla luna. Alla maestra piacque un sacco, e siccome gli insegnanti hanno una strana tendenza a premiare i loro preferiti con il pubblico ludibrio, mi chiamò alla cattedra per leggere il racconto alla classe.

Era la prima volta in assoluto che una mia storia usciva dalla mia stanza, dalla mia casa, dalla mia famiglia e soprattutto dalla mia bocca.A metà lettura, dovetti fermarmi perché i miei compagni di classe ridevano. Ridevano della mia storia che parlava di principesse che volavano sulla luna e ridevano di me che avevo di sicuro qualche ritardo mentale per essermi inventata una cosa simile.

A nessuno piace stare impalati davanti a un mucchio di persone che ti prende in giro, ma la maestra mi costrinse a finire la lettura (sempre perché ero la sua preferita e meritavo il pubblico ludibrio!)Ogni volta che finivo di leggere una frase e sentivo una risata soffocata in sottofondo, moriva una parte di me (in massima parte formata da orgoglio).

Quando tornai al mio posto, pensai: “fare lo scrittore fa schifo, non scriverò mai più una storia”. Ma più tardi, a casa, capii che scrivere storie mi piaceva troppo per rinunciarci, quindi ripiegai su: “non dirò mai più a nessuno che faccio una cosa ridicola come scrivere storie”. E così feci.

Per molti anni mi sono vergognata di dire agli altri che scrivevo, per molti anni ho pensato che “scrivere storie” fosse una cosa da sfigati, la maniera più facile per finire fra le folte fila dei “disadattati”.Poi cominciai a sentire il bisogno di confessare.

A vent’anni inviai un sms al mio ragazzo di allora per dirgli che scrivevo (come se gli stessi confessando che lo tradivo). Lui mi disse: “brava” come si risponde a un bambino di quattro anni che ti porta il suo primo scarabocchio spacciandolo per il tuo ritratto. Poi se ne dimenticò.

A ventitré anni lessi di un corso di scrittura creativa all’università, per partecipare bisognava inviare un mini racconto. Lo feci, ma non fui ammessa. Una mia cara amica, sì, invece. Piansi tipo per una settimana, all’incirca ogni giorno (di nascosto).

A venticinque anni inviai un mio (brutto) romanzo a diverse case editrici, rispose solo una, per dirmi “Non ci interessa, grazie. Però se vuoi puoi darci 5000 euro e allora forse ci interessa”. Ovviamente non avevo 5000 euro per rendere il mio romanzo “interessante”.

A ventisei anni o giù di lì, feci leggere un mio (brutto) romanzo a un amico e gli dissi di non farlo leggere a nessuno. Lui invece lo passò a una sua amica, che trascorse parecchio del suo tempo a prenderlo in giro davanti a me e ad altri, facendo finta di non sapere che l’autrice ero proprio io.

La mia vita di “autrice” è costellata di una serie di insuccessi e porte in faccia e prese in giro e sfighe che manco Willy il Coyote in una delle sue giornate peggiori. Ma poi, col tempo, ho capito che i “no” e le porte sbattute sul muso fanno parte del “pacchetto”.

Sono una prova perpetua che devi superare per dimostrare a te stesso e agli innumerevoli ragazzini sghignazzanti che il tuo sogno è reale. È questo, penso, che dà dignità a ciò in cui credi: il numero di risatine di scherno che sei riuscito a sopportare senza mollare tutto.

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