Cormac McCarthy mancava sulla scena editoriale dal 2006, anno di uscita de La Strada, romanzo vincitore del Premio Pulitzer, e la sua riapparizione è avvenuta con un dittico – Il Passeggero e Stella Maris, edito in Italia da Einaudi – destinato a restare nella storia della letteratura, non soltanto per la sua unicità come opera, ma anche come testamento letterario e culturale di uno dei più grandi scrittori – per quanto mi riguarda, ma non solo per me – della storia.

Con Il Passeggero e Stella Maris, McCarthy ha salutato la scrittura e, contemporaneamente, la vita (Stella Maris, in Italia, è uscito postumo), in una maniera molto simile a quanto fatto da David Bowie con Black Star (un’altra stella, strutturalmente diversa da quella di McCarthy, ma ugualmente oscura e metafisica).

Di cosa parlano il Passeggero e Stella Maris? Difficile dirlo con precisione, perché al di là di alcune strutture narrative piuttosto riconoscibili e tipiche dello scrittore, in questo dittico troviamo quella che forse è la sintesi delle riflessioni etiche, filosofiche, eziologiche (o almeno le sue possibili conclusioni) condotte dall’autore nel corso della sua lunga vita.

Quelle che seguono, comunque, sono solo le mie personali riflessioni, come tali non hanno la pretesa di essere né complete né veritiere, ma alla fine, quello che forse emerge da quest’opera eccezionale, è che nulla è completo e veritiero in assoluto.

Per approcciarsi alla lettura di questi ultimi due romanzi (che sono indipendenti l’uno dall’altro e, allo stesso tempo, indissolubilmente legati) non si può prescindere dal considerare la grandissima influenza avuta, sul pensiero di McCarthy, dei contatti con il Santa Fè Institute, un istituto di ricerca globale che abbraccia tutte le discipline possibili: fisica, matematica, biologia, filosofia, il cui obiettivo è “la ricerca dell’ordine nella complessità dei mondi in evoluzione”.

Se l’obiettivo è l’ordine, comunque, quello che emerge da Il passeggero e Stella Maris è che tale ordine è inarrivabile, almeno sulla carta e lo è perché il linguaggio, quello usato per comunicare e anche per scrivere storie, è un’istituzione parassitaria, per dirla alla McCarthy, una sorta di patologia della civiltà umana. Che cosa vuol dire? Che la realtà e la sua rappresentazione costituiscono i due poli di un rapporto talmente complesso e problematico che risulta impossibile, per la mente umana traviata dall’istituzione del linguaggio, comprenderlo. Insomma, da quando c’è il linguaggio, l’Uomo si è allontanato dalla Verità, sembra il riassunto.

Ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno.

Come si arriva a tutto questo? Partiamo da Il Passeggero, ma solo perché questa è la volontà dell’autore (si può leggere anche prima Stella Maris che, temporalmente, costituisce un prequel). Bobby Western è il protagonista del primo volume, che però si apre con il suicidio di Alicia, la sorella.

Alicia è già cadavere, quando la incontriamo per la prima volta, si è impiccata a un albero, nella solitudine innevata di un silenzioso bosco. Questa è solo un’immagine, una fotografia, che abbandoniamo subito ma che echeggia in tutto il romanzo. Ci spostiamo su Bobby, che di mestiere fa il sommozzatore. Bobby non è solo un sommozzatore, proprio descrivendo metaforicamente quella complessità di mondi che caratterizza la nostra realtà, Bobby è stato un pilota e, prima ancora, uno scienziato, proprio come suo padre (membro del Progetto Manhattan) e come sua sorella Alicia.

Il mondo si prenderà la tua vita. Ma soprattutto e in ultima istanza il mondo non sa che sei qui. tu questa cosa credi di capirla. Ma non lo capisci. Non intimamente. Se così fosse saresti atterrita. E non lo sei. Non ancora.

Mentre sta lavorando, Bobby scopre la carcassa di un aereo in fondo a un lago: un aereo con dieci passeggeri, ma nove sono i corpi. Chi è il decimo? Da quel momento, è inseguito da forze governative che cercano la verità, coinvolto in pedinamenti, incursioni nella sua vita privata, sottoposto al blocco dei conti bancari, ed è dunque costretto a fuggire. Il passeggero inizia come un noir e come il racconto di una fuga, ma diventa subito il pretesto per incontrare diversi personaggi e con ognuno intraprendere ragionamenti che affrontano una buona parte dello scibile umano: filosofia, fisica, matematica, storia.

Perché la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie. La perdita di una grande bellezza può mettere in ginocchio un’intera nazione. Nient’altro può farlo.

Qui e là, nella narrazione, emerge l’immagine folgorante e allo stesso tempo spaventosa (nella sua quasi innaturale bellezza, Lei è così bella che si ha addirittura paura di guardarla, diceva Dostoevskij ne L’Idiota) della sorella Alicia: ma Bobby non vuole intrattenersi più di tanto a pensare a lei, non può farlo, perché il solo pensiero lo trascina in una spirale di dolore impossibile da tenere a bada. Qui emerge il primo, vero grande problema: Bobby e Alicia provano, l’uno verso l’altro (e sarà spiegato meglio in Stella Maris) un amore incestuoso. La natura di questo amore è per Bobby la causa di una vita vissuta a metà, nel tentativo costante di sfuggire al dolore, senza mai riuscirvi. Per Alicia, come vedremo in Stella Maris, la natura di questo amore segna il rifiuto stesso per la vita, che le istituzioni umane (come l’idea dell’incesto) hanno reso impossibile da vivere.

Qualcuno ovviamente potrebbe far notare che l’intelligenza è una componente essenziale del male. Più si è stupidi meno si è capaci di nuocere [..]. D’altra parte diabolico è pressoché sinonimo di ingegnoso. Quel che Satana aveva da vendere nel giardino era la conoscenza.

C’è una differenza sostanziale tra Bobby e Alicia ed è nei due antitetici approcci alla realtà: Bobby vive, recluso e sofferente, secondo le regole di una società che in massima parte disprezza ma nella quale ha saputo trovare anche qualcosa di buono: il suo gatto, l’affetto e la simpatia (intesa come sympatheia, “patire insieme”) della bella trans Debussy, alla quale affida l’ultima lettera di Alicia, incapace di sostenerne il peso, e una serie di altri personaggi tutti posti, come lui, al limite; Alicia, invece, considera la realtà inconcepibile, privata com’è, in quanto essere umano, della possibilità di comprenderla.

La speranza è che in qualche modo la verità del mondo risieda nella comune esperienza che del mondo abbiamo. Naturalmente la storia e la matematica e perfino la filosofia sono parecchio in disaccordo con quest’idea.

Finché ha avuto le sue allucinazioni a sostenerla, Alicia resta in vita, quando si congeda dal Talidomide Kid, un essere caratterizzato da malformazioni che le compare fin dall’adolescenza col suo corteo di entità altrettanto incomprensibili (se collocati nella nostra schematica dimensione), dice addio anche all’ultimo legame con la realtà. Buffo e sicuramente metaforico il fatto che l’unico legame rimasto con la realtà, per Alicia, siano le sue stesse allucinazioni.

A suscitare la rabbia sono solo le cose che crediamo possano essere riparate. Tutto il resto è dolore.

Dalla realtà, dunque dalla vita, Alicia si è allontanata quando, in seguito a un incidente durante una gara motociclistica, Bobby finisce in coma. Ad Alicia viene chiesto il permesso, in quanto unico familiare, a staccare le macchine che lo tengono in vita, ma la ragazza a quel punto fugge, lasciando Bobby al suo destino, che lei immagina sia la morte.

A quel punto, senza Bobby e dopo aver salutato le sue allucinazioni, ad Alicia non resta che morire (non prima, però, di aver stretto la mano del suo psichiatra, l’unico contatto umano tra i due, nell’ultima pagina del libro, come atto di empatia verso l’intero genere umano, la cui unica certezza è l’esito comune, la morte).

Credo che il nostro tempo sia scaduto.
Lo so. Mi tenga la mano.
Tenerle la mano?
Sì. Voglio che lo faccia.
D’accordo. Perché?
Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa.

Quello di Alicia, comunque, non è un suicidio d’amore, un atto di estrema disperazione, è la rinuncia a una realtà analizzata in ogni sua componente, e l’accettazione che tale realtà è inconoscibile e, dunque, invivibile. Nonostante questo, Alicia spera, prima di morire, di conoscere la Verità, ma quale sia questa Verità a noi non è dato saperlo.

Se la struttura narrativa de Il passeggero è, pur nella sua peculiarità, ancora quella riconoscibile del romanzo (fatta di testo e dialoghi), Stella Maris vira decisamente verso la narrazione post-moderna, andando addirittura oltre, con un lunghissimo dialogo, che diventa quasi un monologo, tra Alicia, che si è auto-ricoverata nell’istituto psichiatrico Stella Maris, e il suo psichiatra. Possiamo immaginarli, incastonati nella nuda scenografia di un teatro, seduti l’uno di fronte all’altra.

Se lo spazio contenesse una sola entità tale entità non esisterebbe. Non esisterebbe niente che ne giustifichi l’esistenza.

Sarebbe troppo semplicistico concludere che Alicia è pazza e dunque si suicida, perché attraverso i sette incontri che ha col dottore, emerge una chiarezza di pensiero sconcertante che travalica le umane possibilità. Alicia è un genio, è una matematica, e sa che si può vivere soltanto accettando la finitudine e i limiti di una realtà che non ci è dato di comprendere, fuorviati, come siamo, da quella originaria “patologia della civiltà” che è il linguaggio. La struttura mentale di Alicia, volta alla continua ricerca della verità, le impedisce di accettare la differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, deve andare oltre, e oltre è soltanto la morte.

In questo senso, mi ha fatto pensare all’unica differenza che, per i Greci, passava tra dei e umani: la morte. Gli dei vivono e agiscono esattamente come i mortali (appunto), ma a differenza di questi non dovranno morire. Gli esseri umani hanno il tempo, possiedono un passato, un presente e un futuro, gli dei non hanno bisogno di coordinate temporali, perché in un’esistenza priva di fine non ha senso parlare di un prima e un dopo. Ecco, ritornando a Bobby e Alicia: Bobby è umano, troppo umano (citando Nietzsche) e deve vivere – nella visione nichilista di McCarthy – abbracciato a un dolore impossibile da evitare; Alicia ha una mente divina e come tale, per lei non c’è posto nel consesso degli uomini.

Ci sarebbe ancora tantissimo da scrivere, il Passeggero e Stella Maris sono sicuramente fra i libri più belli letti nel 2023 e nella mia vita, contengono pagine di una bellezza inaudita, come quella in cui Alicia descrive minuziosamente – matematicamente, direi – il suicidio per annegamento, pagina che potrebbe essere utilizzata come manifesto contro il suicidio; o come quelle in cui Bobby si ritrova davanti il Kid: la connessione più profonda tra i due, l’unica possibile ormai, che, forse, si concretizza nel momento in cui Alicia muore e che non sapremo mai se porterà Bobby agli stessi esiti autodistruttivi della sorella o se lo accompagnerà per il resto della sua vita, in una sorta di triste, inutile risarcimento.

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